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   La ‘Lanterna’ spiccava sul porto di Genova in tutti i suoi centodiciassette metri.
  Aguzzò la vista. Eccoli: i due grifoni che reggevano lo scudo con l’insegna di San Giorgio, una croce rossa in campo bianco, la coda e le ali alte, quasi a sfiorare la corona che li sormontava, rigorosamente chiusa, simbolo tangibile di sovranità.
  Sulla banchina, di fronte a lui, qualche parente venuto a tendere l’ultimo flebile legame con famigliari emigranti, ansiosi di lasciarsi la penisola alle spalle e di approdare su terre più fortunate e rigogliose. Ansiosi di raggiungere il Nuovo Mondo, emblema di speranza e di futuro in quegli anni burrascosi.
  Sorrise della loro ingenuità, spostando lo sguardo dai nastri colorati, tesi sino alla nave, ai pochi passeggeri addossati sul ponte di quel piroscafo a vapore, più simile a un brigantino che a un transatlantico. Alzò gli occhi, osservando l’alberatura, il fumaiolo alto e stretto che s’innalzava verso il cielo azzurro. Sarebbe stata una traversata lunga e piuttosto scomoda. Fece un rapido calcolo dei passeggeri imbarcati: una trentina senza contare l’equipaggio, per lo più emigranti tricolori.
  Ed ecco i nastri tendersi sempre più, si stava muovendo. Le grida di un paio di ragazzini alla sua destra lo distolsero. Lanciò uno sguardo infastidito nella loro direzione e la vide addossata alla ringhiera di legno, la presa ferrea, le dita livide. Fissava un punto imprecisato tra le acque, gli occhi alla spasmodica ricerca della chiglia. In altre circostanze avrebbe sorriso di quella giovane donna ombrosa. Le femmine avevano una propensione per il dramma che rasentava l’illogico, ma c’era qualcosa in lei, qualcosa d’insolito. Nessun nastro teso verso la banchina, nessun famigliare o amico, nessun servitore.
  I suoi capelli furono i primi a colpirlo: una folta chioma sbarazzina, preda della brezza leggera. Boccoli di un castano incendiato s’inanellavano sulle spalle, celate da un lungo mantello scuro. Sotto quel sole mattutino, parevano catturarne i raggi imprigionandoli tra le ciocche ondeggianti. Distava non più di cinque metri da lui. Respirava a intermittenza e, ogni volta, il petto si sollevava, mostrando la generosità delle sue curve. Indugiò sui fianchi sottili, sulla vita sinuosa, immaginando le lunghe gambe flessuose intrappolate nella crinolina.
  Un brivido lo sorprese, mentre fantasticava su quel corpo invitante, su quella donna pudica. Amava quel genere di femmine. Nascondevano, sotto la timida scorza, un animo succoso e ardente.
  Un alito di vento s’insinuò sotto il mantello, scoprendole la spalla. Lei si volse, trattenendo la stoffa, castigandola con l’imposizione della mano inguantata. Fu allora che lui scorse i suoi occhi scuri, profondi: due perle d’inchiostro su una pergamena d’alabastro. E lì, tra le lunghe ciglia nere, qualche stilla disegnava un percorso insolito. Un tortuoso tracciato che moriva sulle labbra piene: due pesche setose da mordere seduta stante.
  Piangeva in silenzio, lasciava scorrere quella muta emozione senza porvi freno, senza trattenerla. Quella visione lo stregò, più ammaliante che qualsiasi sguardo, corpetto o crinolina.
  E poi la nave ondeggiò, la banchina dinanzi che si riduceva. La misteriosa sconosciuta si staccò dalla ringhiera, diretta a poppa, verso di lui. S’incamminò e il suo incedere lo ammaliò, passi lenti, cadenzati, una sorta di danza. La donna incrociò il suo sguardo per una frazione di secondo, poi lo distolse con nonchalance.
  Lui restò a contemplare la banchina, mentre un profumo di fragole e gelsomino gli solleticava le narici. Fu in quell’istante che scorse la carrozza arrestarsi in una nuvola di polvere. La portiera recante uno stemma giallo-oro che si apriva con impeto e un giovane che correva a perdifiato tra marinai, nastri strappati e volti curiosi. Lo sconosciuto si scagliò verso la nave, quasi volesse afferrarla, strattonarla, costringerla a invertire la rotta. Un grido uscì dalla sua bocca. Un nome in balìa dei venti: ‘Anita’.
  Le sillabe si persero tra le onde increspate dallo scafo. La ‘Lanterna’ che rimpiccioliva, l’aristocratico vociante ridotto a una muta macchia indistinta e quell’essenza di fragole e gelsomino ancora nell’aria.

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